"Signori, le mani!" - Lettera di un arbitro
Lettera di un arbitro ad un arbitro in crisi e ai signori delle tribune
Scritto dopo l'incidente occorso a Bernardini di Ciampino, al termine di una partita tra dilettanti laziali.
"Signore, le mani!" è un grido che echeggia in tutti i campi di provincia, per lo meno a Roma e nel Lazio. Serve a richiamare l'attenzione dell'arbitro anche ai contatti e contrasti (spinte, trattenute) che avvengono dal tronco in su dei calciatori, che si fanno spazio con leggere spinte braccio su corpo dell'avversario. Ogni arbitro ha sentito questo richiamo diverse volte. Esso è infatti ormai divenuto un intercalare, un modo di farsi sentire, magari in quelle partite in cui ormai volano tante parole e l'arbitro non può più stare attento a ogni frase. E allora bisogna farsi sentire, come e più dei propri avversari, e quando si crea quell'attimo di intollerabile silenzio, ecco qualcuno (magari il portiere, a cinquanta metri di distanza) gridare durante un contrasto aereo: "Signore le mani!". In quei momenti sale il tono agonistico della gara, gli animi si scaldano, i calciatori giocano con più vigoria: aumentano contrasti, discussioni, provocazioni, nervosismo. E allora basta un nonnulla per scatenare reazioni isteriche. Se avviene qualcosa di eclatante in momenti simili, statisticamente, l'arbitro è a rischio. Ogni fine settimana si consumano diversi atti di violenza sugli arbitri: per non temere nulla un arbitro deve avere molta sicurezza e un pizzico di incoscienza. Per qualcuno, statistiche alla mano, un arbitro farebbe bene a chiedersi non se mai subirà violenza fisica, ma solo quando questo avverrà.
Ci sono periodi in cui sicurezza e incoscienza possono venire a mancare. Periodi in cui l'arbitro entra in crisi con ciò che fa e tutto gli si para più pesante e brutto. Chi più, chi meno, ma per simili difficili momenti sono passati molto probabilmente anche gli arbitri che sono arrivati in Serie A. E di arbitri in questo stato - incluso me - ne ho visti; posso almeno in parte capire cosa accada.
Ogni fine settimana sei destinato a essere odiato profondamente da un centinaio (o più, o un po' meno) di persone, che ti circondano per più di tre ore in un raggio di mezzo chilometro. Non hai vie di fuga. A volte trovi, sin dall'inizio, tutti nervosi, mentre tu eri di tutt'altro umore. Sembrano frenarsi, trattenere un odio preventivamente coltivato in buona parte verso di te (buffo, poi, che ti vedano come un nemico, il garante del corretto svolgimento della gara). Potrebbero da un momento all'altro sfogare le proprie rabbie e frustrazioni, perché è vero: in quel momento accade che qualcuno vorrebbe, glielo si legge sul volto. E mettere in discussione quella terribile idea di te che hanno e tanto fa loro piacere è utopia.
Sai bene che il filo della ragione cui sono appesi è spesso fragile in confronto all'impeto emozionale e completamente irrazionale, opposto alla lucidità, privo di senso. Rabbia che rende meno che umani, istinto omicida di un animale, treno in corsa, irrefrenabile. Odio folle nei confronti di un malcapitato ragazzo che magari, incontrato in altri contesti, prenderebbero in simpatia; a cui, in un incrocio di sguardi tra sconosciuti, farebbero un sorriso.
Ormai hai perso ogni gusto nel fare quello che fai. Ti senti ingiuriato, insultato senza motivo e reagisci in un primo momento con insofferenza. Senti persone indignarsi, appendersi alla rete e protestare con tutta la voce che hanno in corpo perché per tre azioni di fila non hai fischiato un "gioco da terra" (un gioco da terra...), come se fosse la cosa più scandalosa che il mondo abbia mai visto. E le cento persone intorno a te sono tutte convinte che lo sia, anche i giocatori in campo. Anche quelli della squadra che ha beneficiato dei tuoi mancati fischi, sentono come di averla fatta franca. Forse ne ridono compiaciuti, sono anche loro contro di te. E in quell'ambiente in cui non ti riconosci, che inizia a provocarti un malsano ribrezzo, apprendi di essere il solo, l'unico, a sapere che il "gioco da terra" è un'infrazione inesistente nel Regolamento. E sarebbe inutile spiegarlo. E quando guardi i volti di una ventina di uomini sui cinquant'anni che si organizzano (sì, addirittura) per cantare in coro contro di te, ragazzo diciottenne o ventenne: "Signore fischia fischia che tua moglie sta a scopa'" ("moglie" addirittura! Eppure capita, anche a diciott'anni), provi prima uno strano senso di pace, una sicurezza. Sei cosciente di chi hai di fronte. E sei sereno, non potrai mai fare niente con persone così. L'ambiente di certi ambienti non potrà mai essere cambiato.
Successivamente provi una grande amarezza. Le tue prestazioni calano. Torni a casa: il referto è l'ultimo sgradito ricordo, la scoria di un incubo, una fastidiosa incombenza. Non accogli più con gioia la successiva designazione, ma con angoscia. Le mattine della domenica con zero gradi vorresti passarle a letto o comunque a casa, al caldo, a guardare fuori, o fare quello che ti piace. Di sicuro non alla gogna pubblica, non lo meriti. Hai una dignità e non hai fatto nulla di male.
Poi pensi che un giovanissimo signor Bernardini di Ciampino poche settimane fa stava per morire, solo per svolgere questa insensatissima attività. Davvero. Per mo-ri-re. "E allora, arbitro - ti dici - fai una cosa: smetti. Stai a casa con la tua famiglia o la tua ragazza. Devi riprenderti dall'odio che vedi ogni domenica. Cosa ti possono dare gli ambienti del calcio? Odio e ignoranza. Che senso ha tutto ciò che fai come arbitro? Nessuno. E allora basta, smetti. Starai meglio. In fondo diventare un arbitro di Serie A non è nemmeno il più grande dei tuoi sogni."
Però attenzione, arbitro depresso, perché in questo momento vedi tutto nero, non sei lucido. E per continuare a scendere in campo ogni domenica devi ricordarti che non è vero: nel calcio di provincia non fa tutto schifo. Le cose possono andare diversamente, sei solo entrato in un circolo vizioso.
E' vero, nessuno ti vorrà bene in campo, e forse potevi anche aspettartelo. Ma puoi essere in grado di gestire le situazioni solo se ritrovi il tuo primo vigore, di quando intervenivi col fischio deciso prima delle proteste, di quando fermavi con convinzione e pur senza presunzione le proteste dei calciatori.
Il difficile di essere un arbitro è continuare con la stessa convinzione anche quando si ha tutto contro. Chi riesce sta meglio e innesca un circolo virtuoso, chi non riesce il contrario. La miglior cura per te è ritrovare la tua corsa decisa, non appesantita e annoiata. E smetterla con questo giudizio sulle persone che protestano contro di te. Che anche se ne hai tutte le ragioni del mondo, piangersi addosso non servirà a niente. Perciò quando vedi situazioni di tensione, hai solo da guadagnare se smetti di essere insofferente. Non sei necessariamente una vittima, non stai andando alla gogna e non è una tragedia. Tutto può essere vissuto in maniera completamente diversa, persino opposta. Puoi reagire trasmettendo decisione e soprattutto tranquillità all'ambiente circostante. E non perché in una partita tutto si possa risolvere con un gesto delle mani e una postura accomodante e conciliante (come quello in foto, di Nicola Rizzoli). E nemmeno perché ritrovare la voglia di impegnarti basti ad arbitrare solo partite tranquille (anche Collina spiegò come si considerasse fortunato a non aver subito violenze, e come questo non dipenda certo dalla bravura dell'arbitro). Ma tutto questo conviene farlo per tornare a vivere bene l'arbitraggio, con serenità. Ricordati che è bello; non fa tutto schifo.
E voi signori, tifosi, gli arbitri girano l'esortazione: "Signori, le mani!". Teniamole a posto, grazie.